Il 23 maggio 2024 l’Istituto Liberale ha organizzato l’evento Mi mancano i vecchi comunisti, in collaborazione con Students For Liberty Svizzera e LPU (Law and Politics in USI). La serata è stata occasione di presentazione dell’ultimo libro di Giovanni Sallusti, relatore principale, intitolato appunto Mi mancano i vecchi comunisti. Confessione inaudita di un libertario, edito in Italia da Liberilibri con prefazione di Giuliano Ferrara. Il tema principale è una discussione sull’evoluzione della sinistra contemporanea di contrasto ai comunisti della vecchia guardia, e sull’impatto che questo nuovo movimento post-URSS può avere su chi porta avanti invece i valori della libertà e dell’individuo dal punto di vista politico. La conclusione paradossale del libro è che chi oggi tiene a difendere la libertà individuale e d’impresa non possa non provare una nostalgia inquietante per i vecchi militanti di partito con cui, suo malgrado, per lo meno condivideva alcune premesse fondamentali.
Dopo una breve presentazione di Carlo Lottieri, presidente della sezione italofona dell’Istituto Liberale, ha preso la parola il relatore principale della serata: Giovanni Sallusti, giornalista, saggista, direttore di Radio Libertà nonché editorialista per il quotidiano “Libero”. Il fulcro del libro sta nel fatto che, ai tempi della Guerra Fredda, c’erano delle premesse fondamentali condivise da tutti gli estremi dello spettro politico, tra cui la Rivoluzione Industriale come fatto storico-economico positivo, l’autonomia della politica rispetto alle altre forme di potere, l’appartenenza alla cultura occidentale. Oggi, al contrario, gli eredi dei socialisti della vecchia guardia sembrano staccarsi completamente da questi assunti, ricercando teorie politiche secondo cui la crescita economica che ci ha permesso di uscire da una condizione fondamentalmente di povertà sia un fattore negativo da limitare per una fatiscente “decrescita felice”; secondo cui la politica debba servire gli interessi di categorie specifiche “oppresse” dalla società in vari modi; oppure secondo cui la cultura occidentale sia qualcosa di vecchio e da superare, e perciò che vada censurato e sacrificato per un nuovo indefinito e sostanzialmente in balia degli interessi di governo che gestiscono i media tradizionali.
La genesi del libro, racconta l’autore, è avvenuta durante le ricerche per la stesura di un articolo sulle imminenti elezioni in Italia e sul movimento allora popolare delle “Sardine”, un gruppo apartitico di giovani che si schieravano genericamente a favore di visioni progressiste. A detta di Sallusti, i curriculum dei leader di questo movimento lasciavano trasparire un’essenziale mancanza di cultura intellettuale, cosa che invece era garantita nel militante comunista della vecchia guardia – che, per così dire, parlava la stessa lingua di chi difendeva la libertà individuale e il libero mercato, benché partendo da assunzioni opposte e giungendo a conclusioni opposte. L’evoluzione del progressismo alla fine della Guerra Fredda ha portato, per lo meno in Occidente, un cambio di paradigma che parte da una diversa impostazione culturale e arriva a tematizzare la distruzione di certe premesse fondamentali, di un certo modo di intendere il dibattito politico e gli obiettivi dell’opinione pubblica.
Come si è arrivati a questa evoluzione del progressismo, da veterocomunismo a woke? Secondo la visione di Thomas Kuhn dei paradigmi scientifici, che l’autore vuole estendere anche ai mutamenti sociali, ogni nuova comprensione della realtà – in questo caso politica – deriva fondamentalmente da un momento di crisi. Sul finire della Guerra Fredda, la sinistra ha avuto il suo momento di crisi, che è stato ironicamente etichettato come “radical chic”. Il “radical chic” adottava sì la visione del mondo marxista, i suoi concetti e temi e le sue soluzioni, ma veniva adottato da persone ricche e benestanti, intellettuali di punta di quella che si sarebbe chiamata fino a vent’anni prima “borghesia”, andando a sfumare il valore della nozione centrale di lotta di classe. In questo modo, il messaggio socialista s’è andato ad annacquare e poi a perdersi a livello sociologico, fino a lasciare spazio ad una trasformazione che dimenticasse le premesse fondamentali da cui era partito e che lo faceva emergere come un’evoluzione, o una derivazione, del pensiero classico fedele ai valori occidentali della libertà e dell’individuo.
Esistono tre filoni fondamentali che hanno portato alla genesi delle contraddizioni odierne della sinistra woke. Il primo è economico, ovvero l’allontanamento da parte della sinistra dalle motivazioni fondamentali del marxismo, cioè la preoccupazione per temi come la qualità del lavoro, i salari, i valori della classe operaia, e in generale la costituzione di un ordine economico veramente alternativo al capitalismo. Cosa che s’è completamente persa oggi, con la sostituzione dell’economia con temi vagamente sociali e che tipicamente seguono la cronaca del momento o le mode nate sui social media. Basti pensare all’incipit del Manifesto del partito comunista, dove Marx addita alla borghesia il merito di aver industrializzato il mondo, facendo compiere alla storia “la più grande rivoluzione umana”, visione completamente impensabile per il socialismo ecologista di oggi che vede nella stessa industrializzazione un male da estirpare in difesa del pianeta. Il secondo filone da cui la nuova sinistra s’è distaccata è l’incrollabile realismo politico dei “vecchi comunisti”, ovvero la padronanza della tecnica politica e dell’organizzazione di partito per assaltare concretamente i centri di potere e cercare di proporre soluzioni per trasformare la politica del proprio Paese in qualcosa di affine ai principi socialisti.
Di contro, la nuova sinistra sembra inseguire valori paradossalmente più ideologici, mutevoli perché fondati sulla cronaca del momento, e che vagamente sono fondati sulla fiducia per l’operato della forza pubblica, l’odio per i ricchi, e la volontà di sovvertire le tradizioni che derivano dal passato, qualunque esse siano. Infine, l’ultimo filone, il più filosofico e profondo, è il distacco dall’occidentalismo che era comunque ben radicato nel comunismo della vecchia guardia. A differenza dei socialisti moderni che vedono nell’Occidente e tutto ciò che rappresenta, dal fulcro del capitalismo neoliberale al lascito dei valori tradizionali, come un male da estirpare e sovvertire, il comunista di un tempo si interpretava anzi come la vetta, l’evoluzione della civiltà occidentale. La differenza sta proprio nel fatto che, per i vecchi comunisti, l’imposizione del nuovo regime e della nuova rivoluzione dell’umanità non avrebbe mai potuto avere luogo senza la rivoluzione borghese, e ancor prima senza tutto ciò che l’Occidente storicamente ha rappresentato. D’altronde, certe uscite di Marx ed Engels nelle loro lettere private contro i popoli extraeuropei oggi verrebbero tacciate senz’altro di razzismo, censurate, e al limite tralasciate come “frutto dei loro tempi”, ma al contrario sono da interpretare come un atteggiamento collettivista coerente con una visione secondo cui la cultura occidentale aveva qualcosa di importante da offrire alla storia del mondo.