Nelle società contemporanee vi è difficoltà ad accettare l’esistenza di forti disparità territoriali. In ragione del prevalere di logiche egualitarie, la presenza di aree relativamente depresse è considerata un problema da affrontare e risolvere, al fine di ridurre almeno in parte le diseguaglianze.
Si può discutere sulla fondatezza di questo progetto, dato che l’egualitarismo tende a produrre esiti in vario modo illiberali e non va confuso con una doverosa attenzione ai più deboli. Un filosofo inglese scomparso pochi anni fa, Anthony Flew, in un suo bel testo oppose la logica dei Buoni Samaritani, che appunto si preoccupano di chi ha bisogno di soccorso, e quella dei Procustiani, che invece mostrano una preferenza ideologica per un ordine sociale in qualche modo appiattito: anche a costo di causare un generale peggioramento della situazione di tutti.1
Quali che siano i limiti della prospettiva egualitaria, è comunque fuori discussione che nelle società contemporanee ogni eccessiva diversità tra le regioni che compongono una medesima comunità nazionale è intesa quale una difficoltà da superare: che si tratti dell’arretratezza dell’Andalusia in Spagna, di quella dei Länder orientali in Germania o del Mezzogiorno in Italia.2
Cosa si può fare, allora, per risolvere in qualche modo tale situazione?
Da tempo in Svizzera sono all’opera due diverse e per tanti aspetti contrapposte strategie, che rinviano a distinti orientamenti culturali. Nel corso degli anni la legislazione ha infatti introdotto varie forme di perequazione, in ragione delle quali le aree geografiche più benestanti della società elvetica sono costrette a destinare una parte delle proprie risorse a quelle meno sviluppate. Si tratta di aiuti a carattere redistributivo, con tutti gli inconvenienti che ne derivano: non ultimo quello di suscitare viva contrarietà in chi è costretto a pagare, minando alla radice quello spirito federale che invece sarebbe necessario preservare e rafforzare.
Esiste però anche un’altra strategia ed è quella del federalismo competitivo. Sulla base dell’ampia libertà di autogoverno a loro disposizione, i cantoni che si trovano in condizioni relativamente più difficili possono adottare strategie attrattive. Se lo vogliono, essi sono in grado di fissare regole semplici che non intralcino le attività imprenditoriali e, soprattutto, possono ridurre la pressione fiscale allo scopo di chiamare sul proprio territorio persone, capitali e imprese.
Questa seconda soluzione non sposta risorse in maniera coercitiva, ma semmai permette ai singoli individui di delocalizzare la propria ricchezza e i propri investimenti al fine di premiare le giurisdizioni che creano i contesti istituzionali più favorevoli. E i vantaggi di tutto questo sono numerosi.
Mentre la perequazione statale porta qualcuno a utilizzare risorse prodotte da altri (e indebolisce quindi il principio di responsabilità), la concorrenza istituzionale che è al cuore del federalismo competitivo chiede a ogni singola realtà locale di prestare la massima attenzione a quanto fa e alle conseguenze delle proprie decisioni. Entro un ordine rigorosamente federale, poiché si spende solo quello che i propri cittadini hanno versato, di solito vi è maggiore attenzione a operare bene, evitare sprechi, gestire ogni cosa in economia. Per giunta questo federalismo coerente introduce una sorta di “gara” tra amministratori locali che porta molti a copiare le soluzioni più efficaci, stimolando innovazione e miglioramenti.
Può sembrare che tutto questo agevoli solo i cantoni che maggiormente s’impegnano ad abbassare le imposte e a semplificare la legislazione, ma non è così, poiché anche gli altri sono costretti a restare al passo, evitando di spremere troppo i contribuenti e cercando di dare loro buoni servizi in cambio di quanto versano.
Un federalismo di questo tipo ripresenta nell’ambito istituzionale il dinamismo concorrenziale che un autore come Friedrich von Hayek ha posto al centro della sua riflessione, specie quando ha opposto gli ordini spontanei e quelli pianificati.3 Le diverse entità unite dal patto federativo sono insomma chiamate a dare il meglio di loro e l’esito finale è tutt’altro che predefinito. In questo senso, la competizione istituzionale basata sull’autogoverno delle tradizione elvetica aiuta soprattutto a tenere bassa la pressione fiscale e alta la qualità dei servizi offerti dagli enti pubblici locali nell’intera società elvetica, dato che crea una sorta di “mercato” concorrenziale nell’ambito dei servizi pubblici.
In fondo, bisogna tenere a mente che uno dei segreti del successo svizzero sta proprio nel fatto di essere una piccola realtà, per giunta divisa in 26 comunità politiche largamente indipendenti e a loro volte suddivise in comuni che si autogovernano ampiamente.4 In tale quadro, è difficile immaginare che un cantone possa comportarsi troppo male (alti costi e bassa qualità dei servizi) dato che è assai facile spostarsi in un cantone vicino e accedere a condizioni migliori.
Mentre la logica della perequazione — che pure riscuote un crescente sostegno anche nel mondo politico — crea tensioni, annacqua la responsabilità degli attori politici e riduce la competizione, una solida fedeltà alle ragioni storiche dell’autogoverno elvetico è assai meglio in grado di dare potenti strumenti alle aree meno ricche e che vogliono progredire. Se Uri si trova in condizioni peggiori di Zugo, provi ad abbassare le imposte e semplificare le regole: è ragionevole immaginare che le cose miglioreranno.
Va anche sottolineato come la distanza tra le regioni più prospere e meno prospere della Svizzera sia spesso inferiore a quella che si riscontra in varie altre società d’Europa, storicamente estranee allo spirito federale. E si può supporre che proprio l’ampio ricorso agli strumenti della competizione istituzionale, nel corso dei decenni, abbia permesso alle aree con minori risorse e opportunità di giocare bene le proprie carte.
Sui temi della competizione tra giurisdizioni molti economisti e filosofi (basti pensare agli autori della scuola di Public Choice e, tra gli altri, a Gordon Tullock) hanno sviluppato analisi approfondite,5 ma è interessante rilevare come spesso anche chi si occupa di teoria abbia cercato proprio in Svizzera una conferma empirica alle proprie tesi.
Questo significa che per quanti vivono a Zurigo, Lugano o Ginevra, basta in fondo guardarsi attorno per capire cosa è meglio fare e cosa è meglio evitare.
(Una versione ridotta di questo testo è stata pubblicata sul Corriere del Ticino)
1. [Anthony Flew, Equality in liberty and justice, New Brunswick — London, Transaction, 2001. La formulazione più nota di una filosofia politica a vocazione egualitaria si trova in: John Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008 (1971).]↩
2. [È significativo in tal senso che secondo Allen Buchanan non abbia diritto a secedere una comunità politica relativamente più ricca che voglia sottrarsi a doveri di solidarietà nei riguardi di una comunità politica relativamente più povera. Si veda: Allen Buchanan, Secessione. Quando e perché un Paese ha il diritto di dividersi, Milano, Mondadori, 1994 (1991).]↩
3. [Al riguardo si veda, in modo particolare, il primo volume di: Friedrich A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Milano, il Saggiatore, 2010 (1973-79).]↩
4. [Sul tema insiste opportunamente un bel libro di uno storico inglese: Jonathan Steinberg, Why Switzerland?, Cambridge, Cambridge University Press, 1996 (1976).]↩
5. [Si veda in particolare: Gordon Tullock, La scelta federale, Argomenti e proposte per una nuova organizzazione dello Stato, Milano, Franco Angeli, 1996 (1995).
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